In ricordo della poetessa Ofelia Giudicissi Curci

 

Sinfonia di un popolo morente

 

Dire dashiuria

che significa amore

e dire mëmë

che sta per madre

che senso ha ora che

nessuno indende più la mia lingua?

Come ultimi orgogliosi Cheyennes

gli arbresci resistono

a Falconara – nido d’aquila-

e quelli della piana

di  Castrovillari credono

di vivere ancora gridando

all’eco cerimonie e riti

mentre gli avanzi

di una civiltà antica

del catanzarese sbiascica

le ultime frasi in tracio.

La mia lingua è la stessa

che parlò Omero e le ansie

di Achille sono le stesse

che lacrimo io se Teti

vuol dire “mare”

e Ioni “nostro” e se

lontano Cristo fu coperto

dal mio “ sindoni”.

Poichè le parole rimbalzano

a noi stessi e nessuno ha mostrato

rispetto per esse, esse si sono spente

così che un popolo morente

può solo dire come Ettore

in punto di morte “des...”

che sta per la parola muoio.

Le canzoni, le ballate, i vezzi

il sarcasmo audace, il coraggio

e le care usanze, i merletti

nel bellissimo bianco inamidato

si sono persi nel cammino

dell’emigrazione.

Non so più dire nella mia lingua

la parola “soffro” e dirla così

non mi è nemmeno di appagamento;

posso però fare intendere

alla mia gente

come altri hanno fatto con me,

che se vogliamo, qualcosa forse

resterà di noi, del nostro cuore

dell’antico mito di un tempo.

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