Buia, bagnata,
la sera
nelle strade di
Vena, pioggia;
Io cerco Mara
la Rapsoda degli
arbereschi.
Nella strada una
vecchia.
“Bentrovata,
comare!
Lo sai dove
abita Maria Fiore,
La rapsoda
arberesca?”
Benvenuto, tu
viandante,
perchè sei del
nostro sangue,
alla tua domanda
ti rispondo
che la casa di
Mara è qui.”
Una casupola
aperta io vidi,
un fuoco nel
focolare ardeva,
emetteva fumo il
camino.
Dentro il fumo
io vidi
una donna, ancor
giovane,
con in un
braccio un bambino,
un grande
mestolo nell’altro;
mescolava
qualcosa nella caldaia.
Capelli neri
come la notte,
faccia bruciata
dal sole,
il fuoco
crepitava tutt’intorno
alla figliuola
nella casupola di pietra.
“Ohimè, che mi
mescoli
nella nera
caldaia?
Mescoli un
infuso di erbe
adatto contro il
malocchio
e e per gli
ammalati d’ amore?”
Uscì Maria Fiore
severa,
e severa col
figlio in braccia,
le scintille dei
suoi occhi
si riversarono
sul mio viso.
“Tu devi essere
matto,
Per quanto
ingiustamente hai detto!
Scappa, chè mio marito
sta per rientrare
e la testa che ti trovi
ti taglia.”
“Tu non mi scacci,
e nemmeno tuo marito mi
uccide,
perchè un poeta io sono:
anche con la testa
tagliata
un poeta non muore!
Canta, per questo son
venuto.”
“In verità tu sei
ubriaco!
Che mi è capitato, povera
me!
Se i santi non m’aiutano
siedi sulla soglia e
ascolta!”
Incominciò così Mara
il canto di Costantino,
che fu per tre giorni
sposo
e nove anni nell’esercito
del Signore di
Costantinopoli
finchè non ritornò dalla
sposa.
Invitò tutti al
matrimonio,
al di fuori di me, perchè
non ero nata.